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Vivere Senzaetà: 'Alle spalle delle barriere architettoniche'. Lettera di un disabile 'invisibile'

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Pubblichiamo la lettera di Andrea Fratoni, un ragazzo di Ascoli Piceno che ha voluto scriverci per sensibilizzare i lettori sul tema della disabilità e delle barriere architettoniche, intese non solo come ostacoli costruiti dall'uomo, ma anche come l'apparato di pregiudizi e disinformazione che rendono i disabili dei veri e propri 'invisibili' agli occhi dei normodotati.

''Oltre ad essere quella che si dice una severa maestra, e a presentarci il suo volto più incomprensibile e doloroso, la vita, fortunatamente più spesso, entro i confini della sua rassicurante quotidianità, si diverte ad esercitarsi come sceneggiatrice e regista dei più incredibili ed ironici paradossi.

Noi persone con disabilità, non bastasse la nostra ''eroica'' esistenza, siamo ogni giorno costretti a fronteggiare e fare i conti con entrambi questi aspetti della realtà, quello tragico e quello assurdo: fra l’altro non è semplice distinguerli per il fatto che tali dimensioni si presentano molte volte insieme e si confondono l’una nell’altra. Innumerevoli sono gli esempi di queste situazioni, al punto che nessuno, dotato di esperienza di mondo, possa più stupirsi che tragedia e commedia nella vita spesso si presentino a braccetto.

Uno dei casi più vicini e noti alla nostra esperienza di ''esseri umani in carrozzina'' ci mette quotidianamente di fronte al problema di ostacoli che, anche grazie alla complicità dei tanti i quali, per incapacità o per convenienza non possono oppure non vogliono vedere, risultano così piccoli oppure così grandi da riuscire comunque inosservati, finendo per costituire continuo invisibile impedimento, persistente faticosa sfida alla normalità, fortemente auspicata, delle nostre giornate.

Che si tratti di centimetri, o di metri, di semplici rilievi oppure di grandi costruzioni fa lo stesso. Ogni volta, la questione passa sotto silenzio, e, nell’assenza di entità rilevabile, il danno procuratoci viene completamente trascurato. A noi non resta altro che la beffa di alimentare un allarme il quale, non essendo rilevato dal resto dei nostri concittadini, nel migliore dei casi suscita solo ingenuo stupore, limitandosi a far cadere “''hi di dovere'' dalle cosiddette nuvole. Tuttavia questo atteggiamento non ci soddisfa più. Di candore irresponsabile ne abbiamo piene le tasche. Di cosa stiamo parlando? Delle famigerate ed ormai onnipresenti barriere architettoniche.

Si dirà: tutto qui? Una tempesta in un bicchier d’acqua. Basta ripianare un marciapiede, istallare una pedana, oppure, in caso di ''extrema ratio'' abbattere un muro… In ogni caso la faccenda si risolve con poco. Scomodare il carattere pirandelliano della vita, sotto questo punto di vista, sembra un azzardo.

Eppure le ''quisquilie'' appena segnalate, come detto, a causa del fatto di essere erroneamente ritenute tali, non vengono mai prese in considerazione. In tal modo le barriere architettoniche, col passare del tempo, restano sempre in piedi, ogni giorno più difficili da accettare a causa della leggerezza e della sottovalutazione con cui il loro problema è stato reso inamovibile.

Da inezie che potevano essere, tali ostacoli sono stati fatti diventare, a causa della disattenzione per noi persone con disabilità, questioni ciclopiche. Il buon senso, pertanto, ci suggerisce di andare al di là delle apparenze e di ritenere che, se le nostre folli geometrie urbane, sedimentandosi le une sulle altre, sono riuscite via via a mutare quantità in qualità fino a trasformare le nostre strade in vere e proprie trincee, ebbene il problema delle barriere architettoniche non è trascurabile quanto si crede: probabilmente alle spalle della questione si cela qualcosa di più importante.

Magari barriere di pensiero, sicuramente più dannose di quelle di asfalto o calcestruzzo, le quali, in tal modo, finiscono per costituirne l’inevitabile conseguenza. Smascherare idealmente le ostruzioni mentali allora diventa prioritario per abbattere quelle materiali e, finalmente rendere davvero fruibili a tutti luoghi che di aperto e libero, oggi, hanno solo un pallido ed ingannevole aspetto. In base a quanto detto cominciamo col fare un passo indietro e chiediamoci quale deposito di significato sia possibile rilevare all’interno del nesso che lega la necessità di abitare uno spazio alla sua successiva e progressiva urbanizzazione.

In realtà, ci dice la filosofia, la costruzione di una città, anche solo come idea o concezione dello stanziarsi e del risiedere, prima ancora della sua realizzazione materiale, è già un modo di “abitare” ovvero di impostare un rapporto di presenza all’interno di un territorio e della sua realtà naturale. In questo senso, fin dalle sue origini, l’organizzazione strutturata della dimora, e quindi, come sua evoluzione, il fenomeno dell’urbanizzazione, così come tante altre testimonianze della civiltà umana, hanno avuto un significato meramente ''tecnico'', acquistando contenuto in quella relazione mezzo-fine che li ha approntati strettamente allo scopo di garantire, sempre più e meglio, la sopravvivenza degli individui, venendo di conseguenza valutati, in modo rigoroso, solo in relazione a questo particolare tipo di efficacia.

Oggi le cose non sono cambiate: la città è e resta un modo ''tecnologico'' di organizzare e gestire il tempo e lo spazio dell’uomo contemporaneo il quale, di pari passo, ha continuato, in maniera sempre più sofisticata, ad essere quell’artefice tecnico, o se vogliamo architetto del proprio destino, che progetta ogni aspetto della sua presenza sulla terra, senza lasciare nulla al caso.

Gli agglomerati urbani, in altre parole, sono quei luoghi che l’umanità ha prima sviluppato e costruito ed in cui si poi è installata, nel tempo, per assicurarsi, sempre di più e meglio, circa le proprie esigenze tecnologiche. Il problema è che questo processo, di durata ormai millenaria, è penetrato ed ha influenzato la nostra cultura a tal punto che l’uomo di oggi non riesce a pensare e a concepire sé stesso se non nei termini descritti, ovvero secondo il modello tecnologico, il quale attualmente si manifesta soprattutto come attività ''economica'' ovvero rigida ed organizzata concatenazione di produzione e consumo. Pertanto, nella nostra società, il singolo individuo o riesce ad inserirsi come ''homo faber'' oppure non trova né definizione né collocazione, essendo il convivere attuale una dimensione esclusivamente finalizzata all’esercizio della tecnica.

Di conseguenza anche la città non si dà se non come spazio di movimento di questo tipo di essere umano, ovvero dell’essere umano tecnologico, un individuo perennemente impegnato/intrappolato nella infinita ripetizione del circolo vizioso fine-mezzo-fine.

Questa situazione, com’è prevedibile, crea una divaricazione a livello culturale tra umanità e disabilità. Le due categorie, infatti, normalmente sovrapposte per via gerarchica , vengono in realtà disaccoppiate dal fatto che la persona con disabilità, a causa della sua condizione, non può essere ''tecnologica'' o produttiva nella stessa maniera in cui ci riesce l’individuo normalmente abile. Per questo la persona con disabilità viene definita diversamente abile.

Le sue capacità, infatti, possono essere equivalenti ma solo in maniera alternativa. Tuttavia, dato che, come abbiamo detto, la nostra società non identifica l’uomo se non nella figura dell’individuo tecnologico normalmente abile, ne consegue, anzitutto, che la persona con disabilità non è più pensata in modo integrale, ovvero come essere umano, individuo dotato di diritti, facoltà e necessità al pari di tutti gli altri. In secondo luogo, la persona con disabilità, come conseguenza, subisce una sorta di rimozione dall’orizzonte antropologico condiviso, non viene più contemplata nelle tipologie dell’umano, e, per questa ragione perde la possibilità di essere presa in considerazione nel momento in cui l’uomo tecnologico, normalmente abile progetta la sua città insieme ai relativi spazi di interazione.

Di fatto i nostri agglomerati urbani non sono concepiti né costruiti se non per riuscire funzionali al modello, universalmente dominante dell’individuo produttore e consumatore, altra faccia di quell’essere umano tecnologicamente avanzato che abbiamo appena descritto come interamente dedicato ed assorbito dal compito di mantenere e perpetuare il sistema.

La pratica della tecnica, spinta al suo eccesso, ha creato, pertanto, degli enormi paraocchi culturali, portando la nostra umanità ad una sorta di universale forma di cecità antropologica la quale nega spazi e diritti a tutti coloro che, comunque persone, non possono o non vogliono adeguarsi allo schema produttivistico imperante.

Non sono solamente le persone con disabilità a soffrire di questa situazione. Anche l’accantonamento degli anziani dalla vita collettiva, gravissima piaga sociale del nostro paese, così come le discriminazioni di carattere politico, religioso o razziale perpetrate sia nei confronti delle culture diverse dalla nostra che verso le minoranze etniche sono tutti fenomeni figli del medesimo problema: la restrizione della molteplice e variegata manifestazione dell’umano alle esigenze funzionali dell’attuale apparato tecnico produttivo.

Al momento fermiamoci qui, sebbene quanto siamo riusciti a concludere, secondo noi, apra nuovi e più ampi scenari di discussione.

Riteniamo che il nostro discorso sia riuscito a smascherare, ancora una volta, ciò che davvero ''fa problema'' al di qua delle molteplici barriere architettoniche che ogni giorno la nostra città ci costringe ad affrontare. La questione sollevata, infatti, trova complessiva origine nella rimozione della realtà umana concreta, sostanziata di complessità e differenze le quali, come detto, male si conciliano con i modelli sociali di carattere efficientista e funzionale oggi universalmente imposti.

È questa la prima, più grande e pericolosa barriera che ci interessa denunciare e rimuovere, al fine di riuscire poi ad abbattere, in un colpo solo, tutte le altre, quelle materiali, le quali, disseminate un pò qua ed un pò la, fra le nostre strade, sono così tante, da essere a malapena enumerabili.

Ciò di cui abbiamo bisogno allora, è anzitutto un cambiamento di mentalità, cui segua una società che, in quanto capace di garantire accesso a tutta la variegata dimensione dell’umano, sia di conseguenza in grado di costruire città concepite non solo per servire il modello dell’individuo tecnologico, produttore e consumatore bensì anche per dare spazio e garantire vera interazione all’insieme delle persone reali''.

Grazie a Roberto Zazzetti per la segnalazione.

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